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Provate a indovinare quale sia la frase peggiore da pronunciare di fronte a un fotografo, sia esso professionista o amatore mentre vi sta mostrando orgogliosamente una delle sue foto. I vostri pensieri corrono nella mente perdendosi fra le mille sfumature e la perfezione dei dettagli, ma ecco, quasi inconsciamente le parole che escono dalla vostra bocca hanno il suono di un’eresia: «…però la tua macchina fotografica fa veramente belle foto!»
Boom….un sipario scenderà attorno a voi e regnerà il silenzio!
Ecco come quello che voleva essere un complimento, formulato nel modo sbagliato assuma il significato di massimo disprezzo nei confronti del vostro lavoro fotografico.
Voglio motivare queste affermazioni raccontandovi attraverso le parole e le immagini una delle recenti escursioni sulle Marmarole, gruppo montuoso fra i più selvaggi delle Dolomiti, sottolineando il fatto che una foto non è mai un semplice “click” bensì un insieme di studio, programmazione, fatica, impegno, consapevolezza dei propri mezzi, passione, amore per ciò che si fa e per i soggetti che si fotografa.
Era da tempo che progettavo assieme a Michele, un buon amico di Auronzo di Cadore, un’escursione fotografica in montagna e finalmente lo scorso settembre giunse l’occasione propizia per una due giorni in alta quota. Mi affidai completamente a lui per quanto riguarda modalità e meta, in primo luogo è la compagnia che conta, poi la destinazione, e per quanto ci si possa sforzare è difficile trovare una montagna brutta, quindi la destinazione era piuttosto ininfluente e comunque ero certo che avrei visto un posto nuovo portando a casa sicuramente qualche buona foto.
Decidemmo di salire al rifugio Tiziano (m. 2246 ) e al bivacco f.lli Toso posto a fianco della vecchia struttura edificata nel 1899 che nel progetto iniziale voleva essere un rifugio gestito, entrambi sorgono sul Col di Vallonga nel settore nord delle Marmarole, quello sarebbe stato il nostro campo base. Con noi venne anche Nicola. Fatta la squadra partimmo dalla Casa alpina “D. Savio” in valle Ansiei (m. 1045), sopra di noi i primi 1200 metri di salita, e che salita! Il sentiero non conosce mezze misure, si sale alternando tratti nel bosco a momenti più panoramici ma la pendenza è sempre sorprendentemente elevata, il fondo spesso caratterizzato da ghiaia e pietrisco, inoltre in alcuni punti la via si presenta molto bagnata e scivolosa.
Solo nella parte alta ci è concessa una piccola tregua, la salita si fa poco più dolce e si inizia ad intuire che l’obiettivo è vicino. Fra una chiacchiera e due risate arrivammo comunque al bivacco in buon orario. Il panorama da lassù è incredibile, davanti ai nostri occhi avevamo l’immenso corollario di vette delle Dolomiti di Sesto, dalle Tre Cime di Lavaredo al Paterno, dai Cadini di Misurina alla Croda dei Toni, tutte lì assieme, bastava puntare il teleobiettivo per isolarle una ad una in singole immagini spettacolari.
La salita non ci aveva dato molto respiro e quindi prima di pensare alle foto bisognava riprendere un po’ di forze, organizzarci per la notte prima del buio, mettere qualcosa sotto ai denti.
Nel frattempo dovevamo anche decidere dove scattare le foto al tramonto e dove farlo l’indomani all’alba. La scelta era assai vasta e guardandoci attorno ci fu una cima in particolare che catturò la nostra attenzione: la Croda Alta di Somprade (m. 2646), una sorta di montagna simbolo per gli abitanti della Valle d’Ansiei, il balcone per eccellenza, meta di pochi escursionisti che affrontano le Marmarole e territorio incontrastato di camosci e stambecchi.
Mentre stavamo fantasticando davanti ad un panino ed una meritata birra sentimmo delle voci, non erano certo animali selvatici, bensì due escursionisti che arrivavano al Tiziano dalla parte opposta alla nostra. Una volta giunti al bivacco Michele e Nicola li riconobbero e scambiammo due parole approfittando per chiedere informazioni sulla via per la Croda di Somprade. Dal colle dove eravamo la cima sembrava veramente a portata di mano, davanti a noi l’immenso pianoro dove una tempo sorgeva il ghiacciaio del Froppa di fuori e di dentro, ora di ghiaccio non vi è più traccia ma le rocce levigate e lavorate dalla sua progressiva ritirata hanno lasciato un incredibile anfiteatro costellato da avallamenti, buche, fessure.
2 ore, 2 ore e mezza dal bivacco, sembrava impossibile!
Fatte quattro considerazioni e facendo tesoro dei consigli appena avuti decidemmo di rimanere nei dintorni per il tramonto e puntare tutto sull’alba, avremmo puntato la sveglia alle 3 per essere pronti a partire un quarto d’ora dopo.
E se non fossimo già stati lì? A che ora avremmo dovuto partire per essere lì in vetta all’alba? Orari non normali per gli esseri umani…anche le tre di notte del resto non sono normali ma a questo punto accettabili. Il tramonto non fu generoso in fatto di luce, ci fu comunque la possibilità di fotografare fino a buio inoltrato e poi accendemmo un fuoco nei pressi del bivacco, non doveva mancare la salsiccia cucinata sopra la brace per finire in bellezza, anche queste cose faranno parte del bagaglio di ricordi da portare a casa dopo un escursione in montagna. Infilammo ognuno i nostri due pezzi di salsiccia in un bastoncino di legno di pino mugo appena tagliato, il calore favorisce il rilascio della resina che mescolandosi alla carne le dona un gusto particolare, e vi garantisco che è stata la salsiccia più buona che abbia mai mangiato!
La cena conciliò talmente bene il sonno che l’ora della sveglia giunse in breve, proprio sul più bello del sogno. Scivolammo pigramente fuori dai sacchi a pelo e aprimmo la porta di ferro cigolante del bivacco, c’era molta umidità nell’aria e in valle un bel mare di nuvole, la luna era grande in cielo e illuminava le placche umide sul pianoro davanti a noi facendole scintillare. Non si udiva nulla, il silenzio più assoluto. Giusto il tempo di sistemarci e via, passo dopo passo alla luce delle torce frontali. La sera prima Michele aveva fatto una breve ricognizione fino al bivio per la forcella Jau de la Tana, quindi la prima parte fu molto semplice, poi invece iniziammo a seguire cercandoli nel buio gli omini di pietra ma in mancanza di essi anche l’istinto. A tratti ci fermavamo indecisi, di qua o di là? Facevamo girare la testa di 180 gradi affinché la frontale illuminasse tutto ciò che c’era davanti a noi, ecco un omino, ecco un nuovo tassello lungo la nostra via, chi prima lo vedeva vinceva, uno per tutti e tutti per uno finché il ghiaione alla base della Croda Alta non fu a vista d’occhio. Poco più in alto il grande masso che dovevamo aggirare per attaccare la salita vera e propria. Eravamo in cammino da un’ora e mezza circa e l’orologio non si ferma mai, l’alba non aspetta, dovevamo affrettarci perché giunti fino a qui sarebbe stato un vero peccato mancare l’appuntamento con la luce.
Oltre il ghiaione una breve paretina di roccia richiedeva una breve arrampicata, la vincemmo facilmente e assecondando poi il ripido pendio puntammo decisamente ad una forcella che doveva essere il punto chiave per passare oltre la cresta e portarci sulla Croda Alta di Somprade. Nella salita il rotolare di alcuni sassi ci fece sobbalzare, soprattutto quando con le frontali illuminammo due occhi che proprio davanti a noi brillavano nel buio della notte, la silhouette di uno stambecco solitario prese forma nell’oscurità, ma ci fece subito strada. Sono animali splendidi e mansueti, non vogliono essere avvicinati troppo ma rimanendo a debita distanza si lasciano osservare senza nessuna timidezza. Lo salutammo con la speranza di ritrovarlo con la luce del giorno.
Arrancavamo sull’erba bagnata dalla brina poggiando ogni volta il piede con molta attenzione, non sarebbe stato opportuno scivolare a valle, piuttosto pericoloso.
Nicola arrivò in cresta per primo, poi Michele ed io. Il cuore batteva per lo sforzo, ma ora batteva forte anche per lo spettacolo che avevamo davanti ai nostri occhi. Le nuvole coprivano l’intera vallata sotto a noi in un morbido lenzuolo di cotone mentre all’orizzonte salivano i colori caldi delle prime luci. Situazione idilliaca, stavamo rivivendo la stessa scena del “Viandante sul mare di nebbia” di Caspar Friedrich, tutto era incredibilmente emozionante.
L’unica brutta notizia era che la Croda Alta di Somprade non era proprio vicina, il buio ci aveva tradito ed avevamo sbagliato forcella, troppo tardi per recuperare. Decidemmo di fermarci lì ad attendere l’alba, sulla Cima dei Camosci (m. 2673) , proprio a fianco del nostro obiettivo iniziale.
Il freddo del mattino era pungente, le prime mani gelate, l’aria tagliente sulle guance, e poi la luce!
Una luce calda e forte, spettacolare ad illuminare tutto attorno le vette più alte, per poi gradualmente scendere a lambire anche le alture minori ed infine le valli.
Attimi di intensa concitazione dove l’unico pensiero era scattare quante più foto possibili cercando composizioni, inquadrature, creatività….il tutto senza sbagliare; non avrei avuto la possibilità di tornare qui domani, non l’avrei avuta nemmeno in un immediato futuro, quindi massima concentrazione.
Lo spettacolo durò una mezz’ora circa, poi la luce diventò per così dire “normale” preannunciando una splendida giornata di sole. Ci concedemmo ancora alcuni attimi per osservare un’ultima volta ciò che avevamo di fronte, l’immensità che c’era attorno a noi, piccoli uomini sulla vetta di una grande montagna.
Iniziammo la discesa cercando di rimediare all’errore commesso in salita, in effetti la forcella giusta era proprio quella a fianco, poco male, motivo in più per tornare fra qualche anno da queste parti.
Giunti al verde prato sottostante ecco il nostro amico stambecco, stranamente solitario. Provammo a seguirlo lungo una cengia rocciosa finché ci fu possibile, poi lui, re incontrastato di queste rocce ci fece capire che ne sapeva più di noi, un vero funambolo della montagna che ci convinse con pochi precisi salti a tornare sui nostri passi, riuscii comunque a scattare al volo un bel ritratto ravvicinato, un secondo di brivido quando il suo fischio mi fece sobbalzare, era il suo avvertimento, si stava infastidendo.
Perso il soggetto continuammo la discesa a ritroso ma sorpresona, sulle rocce sotto di noi iniziammo a contare dieci! No sono di più! Venti! Trenta, trentacinque, quarantadue…si sono quarantadue stambecchi, maschi, femmine e giovani in piccoli gruppetti intenti a brucare l’ultima erba estiva prima del rigido inverno. Che spettacolo della natura. Riuscimmo ad avvicinarli tanto quanto basta per scattare con il teleobiettivo e pure qualche scatto con il grandangolo. Gli animali se ne stavano abbastanza immobili osservandoci curiosi, forse loro più di noi. Solo quando decidevano che noi stavamo superando il confine di sicurezza si scostavano di poco fischiando per avvisare gli altri. Inutile dire che mi divertii un sacco a scattare foto a questi splendidi esemplari, non mi accorsi nemmeno che volarono via tre ore come fosse nulla, forse era meglio rimetterci in marcia perché la discesa era tutt’altro che semplice.
Nonostante il ritardo ci furono ancora occasioni di sosta durante la traversata della conca che un tempo fu ghiacciaio, anche qui sarebbe niente perdere delle ore ad osservare le rocce lavorate dal tempo e dalle intemperie, un anfiteatro unico nel suo genere, una testimonianza di come il mondo è cambiato negli anni e continua a farlo con lo scorrere del tempo.
Una breve pausa al Tiziano, e dopo aver sistemato tutto come trovato, raccolto le ultime cose lasciate lì il mattino ci incamminammo per la lunga discesa. Quando è ripida è dura tanto quanto la salita, le ginocchia sono messe a dura prova e il peso dello zaino sulla schiena aumenta i disagi, fortunatamente il panorama sempre sublime ci confortava. A tratti scorgevamo la cima dove eravamo solo poche ore prima, incredibile vista dal basso, noi eravamo lassù!
Giunti a valle una buona birra fu il desiderio condiviso da tutti, e così fu che chiudemmo in bellezza l’escursione.
Due giorni in quota,
dislivello: oltre 1600 metri positivi senza contare i saliscendi,
15 ore svegli il secondo giorno,
fatica: tanta,
gratitudine alla natura per averci regalato una splendida alba: moltissima.
Ma come io dico spesso, le foto bisogna guadagnarle, con fatica e sacrificio, e spero che nessuno mi dica mai che la mia reflex fa veramente delle belle foto, potrei non rispondere più delle mie azioni!
Scherzo naturalmente, non sono mai così irascibile, però spero che questo racconto e gli altri nel mio blog aiutino chi legge ad essere un po’ più realista nei giudizi quando guarda una foto, ci sono alcune immagini veramente sudate e guadagnate, altre semplicemente create davanti al monitor di un computer stravolgendo completamente la scena. La rapida diffusione dello strumento reflex, la moda dei social e della condivisione a tutti i costi ha creato dei piccoli mostri: capita sempre più spesso che alcuni fantomatici fotografi realizzino sul campo foto piuttosto banali, e poi una volta a casa con alcuni sapienti colpi di mouse trasformino queste immagini facendole diventare scene che nulla avrebbero da invidiare all’apocalisse o al dopo big bang.
Ma possiamo ancora chiamarla fotografia? Forse però questo è un altro discorso….
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